sabato 8 agosto 2015

BAGLIORI


Una luce intensa s’aprì il varco, un puntino in lontananza sempre più arrogante. Senza rumore, senza soste, avanzava a velocità costante, ingigantendo. Finché il biancore accecante non gli impedì di vedere oltre. Catalizzava l’attenzione. Intorno, un deserto di nulla. Alle spalle, l’impressione di buio perenne. Inizio o fine di qualcosa? Una forza inerziale progrediva avvolgendo la massa di cui intuiva di essere composto. Lo spingeva in un tunnel di luce, bianca come l’origine da cui scaturiva. Lo abbagliava, anzi era dentro di lui. Lo divorava. Non provava sofferenza, tuttavia, né timore. Una infinita calma l’avvolgeva, ovattando le sensazioni.

Il Bang inatteso dissestò il limbo in cui era sospeso. No, non era rumore, non era violenza, “non era” soltanto. L’effetto fu dirompente. Miriadi di corpuscoli volteggiavano. Urtandosi, esplodevano senza alcun rumore, in un caleidoscopio di colori. Si frazionavano in unità sempre più piccole che schizzavano via, rimpicciolendosi. Si allontanavano da lui, così, rallentando, fino a scomparire. Una raggiera di fuochi d’artificio. Dov’era il punto di innesco? Qual era la causa? Osservò le minuscole particelle, più lontane, disperse su di un tappeto nero in cui lentamente affondavano, sparendo alla sua vista; un universo pecioso che invischiava tutto.

Una scarica violenta di pioggia lo fece trasalire. L’impatto sulle lamiere, squassate dalla velocità di caduta, provocavano un rumore assordante. Grandine, pareva! Il ventre di un serpente, nero come quell’universo che poc’anzi aveva osservato da lontano, gli sembrava che ora gli si aprisse davanti, mentre penetrava nelle fauci spalancate. L’invase un senso di disgusto. Satelliti o pianeti, grandi come palline da ping-pong, gli turbinarono intorno. Ma forse era lui che girava, vorticando intorno. Cadeva, in un imbuto senza fine, senza pareti, senza colore, senza consistenza. Una sensazione di straniamento che, però,  non gli incuteva  paura. Irritazione, piuttosto! Tutto sommato, però, non provava alcun dolore.
Quali leggi governavano quel mondo? Un gigantesco “Vuoto”,  senza significato, lo sovrastava; e lui non lo rifiutava, supinamente schiavo. Lo disturbava, sì, l’irreale inconsistenza che percepiva di un ambiente governato da leggi diverse. Diverse da che? Non sapeva neanche in che cosa fosse diverso; certo era senza regole, senza imposizioni. Inusuale?! Quel moto-immobile l’inquietava; non apparteneva ai concetti in cui si era esercitato. Ma quali erano quei concetti? L’istinto di esistere s’impose impellente, provocandogli uno stato di ansia.

Cercò un appiglio, qualcosa a cui ancorarsi per fermare la giostra su cui era, inconsapevolmente e, forse, contro la sua volontà, salito. S’arrestò di colpo, senza che avesse fatto alcunché per fermare la corsa. Una stanchezza immane gli piombò addosso. Pensò di controllare le proprie condizioni, rivolgendosi verso se stesso, ma non vedeva nulla. Nessuna mano, nessun braccio, nessuna gamba, nessuna pancia, nessun sesso, nessuna sostanza. Tentò di toccarsi, per saggiare la propria consistenza. La risposta fu scioccante. Non sentiva nulla, forse perché non aveva nulla con cui toccare e nulla da toccare. Ma allora chi era, com’era, cos’era e che ci faceva lì? Dov’era caduto e da dove? Cosa c’era prima di lui? Era solo? Ma che senso poteva avere l’essere solo. Una girandola iniziò a ruotargli davanti. Il terrore lo afferrò nel suo ingranaggio per scagliarlo lontano.

“Disconnesso!” pensò quando si riebbe. Per quanto tempo era rimasto privo di coscienza? Che cos’era il tempo in quella situazione? E dov’era se non esisteva nulla ad indicargli la via? Ma di quale via stava parlando? Un nastro d’asfalto, grigio, monotono, gli scorreva davanti, incitandolo a procedere. Un senso di calore l’afferrò. Lentamente, si sentì inaridito, privo di domande, senza risposte: la situazione ideale! Dum, dum, dum, dum. Passi pesanti calpestavano l’invisibile pavimento di quel mondo surreale che lo teneva prigioniero. Dum, dum, dum , dum, dum, dum. Il gigante si avvicinava. Annaspò, disarmato. Non aveva neanche le mani per afferrare strumenti di difesa, se ce ne fosse stata la necessità. All’improvviso si ricordò che era pur vero che non aveva neanche una sostanza da difendere e, forse, non aveva alcuna ragione di temere un danno alla sua sopravvivenza. Gli venne da ridere, soddisfatto, e strinse gli occhi, sornione.
“Ha stretto gli occhi!” una voce femminile gridò, strappandolo alle sue traballanti congetture. “Si sta risvegliando, dottore!”

Infastidito provò a guardare fuori dal vuoto in cui era. Un velo biancastro intorpidiva i lineamenti del viso che lo spiava. Richiuse di colpo la finestra che lo collegava a quell’altro mondo. Avrebbe voluto fuggire. Qualcuno gridò qualcosa contro di lui, quasi a rimproverarlo di essere ancora lì. Allora farfugliò qualcosa, senza capire che stesse dicendo.
“Stabilizzato! Al reparto.” sentenziò un Padreterno materializzatosi all’improvviso, inchiodandolo alla realtà dei fatti.

 “Amen!” pensò il poveretto.


NO-FLY ZONE


Le apparecchiature elettroniche davano ripetuti segni di irrequietezza fino a quel momento.
Era iniziato tutto all’alba. Gli operatori, addetti al radar dell’aeroporto Cristoforo Colombo, avvertirono delle interferenze nei loro apparati: intermittenze nel segnale delle radio frequenze. 
A quel punto ci fu un incremento parossistico. I radar impazzivano, bombardati da campi elettromagnetici d’insolita intensità. RF colpivano la torre di controllo rendendo inutili i sistemi di protezione EMC degli impianti. 
Data l'ora, per fortuna, nell’area c’era poco traffico aereo e solo di transito. Fu dato l’allarme con notevoli difficoltà perché anche le linee telefoniche riservate erano disturbate. I primi voli di linea in arrivo a Genova furono dirottati su aeroporti vicini: Linate, Malpensa, Caselle e Galileo Galilei; mentre quelli in partenza  furono sospesi. Nella sala d’attesa apparvero sul display tutti i voli, allineati su due visori, uno per gli arrivi e l’altro per le partenze, con la dizione: “Cancelled due exceptional circumstances”, prima di dileguarsi definitivamente, inghiottiti da un vuoto nero pece. So inaugurava, così, una giornata di tormento sia per i fruitori che per gli operatori dei servizi aeroportuali per estendersi a tutta la città

Le comunicazioni radio con le navi cessarono d'improvviso, mentre le potenti antenne della rete di radiocomunicazioni alternative di emergenza del CCS della Protezione civile della Prefettura, fortemente disturbate in R2, capitolarono in R4. Lo stallo fu totale. Savona, Torino, Milano e una sequela di altre basi a terra delimitavano l’area interessata dal black-out: da Varazze a Chiavari e da Novi Ligure per una profondità di  circa 30.000 miglia in mare aperto. Era completamente inattiva ogni macchina che utilizzasse l’energia elettrica. Praticamente, un blocco totale!
 A mano a mano che il tempo passava il livello di guardia aumentava insieme all'ansia degli operatori. In breve, furono allertati gli organismi di protezione civile e militare, nazionali e internazionali. Marina ed aeronautica non si raccapezzavano nel cercare di trovare una spiegazione del mistero. Finché non entrò in campo la Nasa.

Laconica come sempre, emise un breve dispaccio senza, apparentemente, affermare nulla. Un notam dell’A.M. divulgò: “ Un campo magnetico di eccezionale importanza, le cui cause sono in corso di valutazione, ha investito l’area della Liguria centrale. Seguiranno aggiornamenti.” Si agitavano, alle spalle, i vari gradi gerarchici gonfi d’ira nei confronti dei tecnici militari, incapaci di proferire verbo. In altri termini nessuno ci aveva capito niente. Enav, attraverso Savona, emetteva notam di “no-fly zone”. A Genova: treni e mezzi di superficie bloccati alle stazioni di transito; pullman e auto private incastrate nel traffico di prima mattina. Mezzi di soccorso e militari impossibilitati, “due malfunction”, a raggiungere le mete comandate. Radio e televisioni gracchiavano senza un senso concreto. Due mondi paralleli. Uno esterno, in fibrillazione perché non capiva cosa diavolo succedeva lì, dentro l’impenetrabile cerchio che attanagliava la città. L’altro, interno alla zona incriminata, che si riteneva abbandonata dalla nazione.

Dopo lunghi "attimi" di fibrillazione degli alti comandi, che sembrarono un’eternità, si cominciò a capire qualcosa. Le pattuglie dei caccia F16CM del 31° FW del’USAFE, levatisi in volo da Aviano, e quelle dei Tornado del 6° stormo, equipaggiati con scanner laser RECELLITE, alzatisi dalla Base Ghedi di Brescia, confermavano le turbolenze. Iimpossibile  attraversarle senza che vi fosse pericolo per l'equipaggio e la macchina. Per ragioni di sicurezza ne fu limitata l'operativa alla semplice osservazione dell’area interessata. Gli strumenti di osservazione a terra, fino alla tangenza massima consentita dalle attrezzature, rilevarono la presenza di un oggetto luminoso sull’asse verticale di Genova. 
Contemporaneamente, il gruppo di turbolenza ottica dell’osservatorio di Arcetri segnalava una fonte di disturbi elettromagnetici a 45.000km. sulla verticale del punto a latitudine 44.4056499N/long. 8.946256E. In meno di un minuto i cervelli di tutto il mondo scrutavano il fenomeno. Apparentemente, un globo luminoso immobile. I genovesi, intanto, stavano riprendendo le attività mattutine e le imprecazioni salivano alte nel cielo. Telefoni, radio e video comunicazioni: inesistenti. Serrande e auto bloccate; mezzi pubblici, di soccorso, civili, militari, navi in rada, in arrivo e in partenza ridotti a giocattoli inutili. Secoli di progresso al macero!

La pallina luminosa dai contorni nebulosi all’improvviso sparì dall’osservazione degli occhiuti curiosi specializzati. Fu allora che si materializzò su Piazza De Ferrari. Non esattamente ferma, non esattamente solo sulla piazza. Circondata da una luminescenza verdognola, incombeva dall’alto senza posarsi. L’asse centrale del globo aveva come vertice il centro della fontana, ridotta al silenzio dalla caduta di potenza delle pompe di sollevamento, ingrippate dall’incontro ravvicinato del terzo tipo. L’imponenza della “cosa” era tale da superare di almeno cento metri il campanile della Chiesa del Gesù, schiacciando sotto la sua massa la visione del Palazzo dei Dogi ed estendendo la sua mole fino a ricoprire il povero Carlo Felice. Nessun rumore, nemmeno un sibilo. La visione, in verità, era confusa.

Il pulviscolo verdognolo si spandeva nell’aria, conferendo un che di sinistro e illividendo ogni cosa. I passanti fuggivano; qualcuno, che aveva ancora il fiato in gola, urlava. Un’onda frastagliata di gente si allontanava dalla piazza, terrorizzata. I corpi di polizia di Stato e  di quella metropolitana accorrevano trafelati con in testa il sindaco e gli alti papaveri, ma rigorosamente a piedi, unico mezzo di comunicazione ancora consentita dalle circostanze. Spauriti e a distanza si davano da fare per creare un cordone di sicurezza per tenere lontani i “civili”, ma frastornati dall’eccezionalità della situazione che li deprivava di chiari ordini superiori che tardavano ad arrivare per difetto di comunicazioni e, ancor più, di idee. Enorme, la “Palla” sovrastava la città che combatteva senza armi, affacciata sul  balcone della sua impotenza, la nuova perenne battaglia contro la paura dell’imprevedibile.

A Roma, dopo l’usuale, iniziale, fatalistico torpore, si buttarono giù dal letto, pronti ad intervenire, armati fino ai denti, con le forze di Terra, di Mare e di Aria, compatibilmente con la contingente situazione di ristrettezza economica. Purtroppo, le ingenti milizie si arrestavano impotenti dinanzi allo sfacelo elettromagnetico che destabilizzava il rapido intervento a protezione della popolazione e, per precauzione, restavano allertate, ma senza uscire dalle caserme, in attesa di ordini precisi e per non consumare combustibile inutilmente. Nei vertici militari riunitisi a consulto serpeggiò l’idea dell’utilizzo delle armi nucleari da richiedere a potenze amiche d’oltralpe, superata dal netto rifiuto da parte degli Organi costituzionali politici che, saggiamente, valutarono l’impossibilità a rinunciare a una parte consistente dell’elettorato che avrebbe voltato loro le spalle, comunisti o non comunisti.

Non sapendo a che Santi votarsi, si consultarono con gli Stati Uniti d’America, prima, e d’Europa, dopo. La USAF si era allertata fin dall’inizio della situazione di blach out con i mezzi della base di Aviano. Erano al corrente della presenza UFO, presumibilmente extraterrestre, non escludendo aprioristicamente una possibile ingerenza russa o cinese o, peggio, iraniana. I loro interceptors erano già in volo, ma senza poter avvicinarsi all’invisibile cono elettromagnetico che avvolgeva l’“area”, estendendosi sino allo spazio. Gli astronomi stavano calcolando il raggio, la dimensione e la provenienza. La risposta pervenne dall’osservatorio astronomico di Baikonur che stabilì che il raggio elettromagnetico proveniva dallo spazio esterno fra Altair e Vega, ma di più non sapeva, mentre gli scienziati inglesi, tedeschi e francesi studiavano affannosamente “l’insolito evento”, ipotizzando eventuali conseguenze per possibili sconfinamenti sui loro territori. Intanto la Palla taceva. Le ore passavano in affannosa immobilità. Gruppi di preghiera spontanei si riunirono, mentre le autorità sudavano freddo, rassegnati al peggio.

Nel torpore della forzata attesa, qualcuno sfuggì al capillare controllo predisposto sulla piazza e attuato dalle forze di sicurezza, private, purtroppo, dei sistemi di offesa garantiti dai mezzi corazzati, costretti dall’“interferenza” extraterrestre all’immobilità, retrocessi, con uniliazione, a ferri vecchi nei loro hangars.
Un bambino di otto/nove anni , da un angolo della Piazza, sgattaiolò, fermandosi sotto l’effervescente crosta, virulenta di corpuscoli verdastri. Reggeva nella mano una delle sue scarpette da ginnastica. Prese la mira, calibrando il proiettile, e tirò verso il mostro.
Terrorizzati, i difensori della patria si accorsero finalmente del piccolo, raggelando. Qualcuno pensava alle conseguenze che avrebbe subito il bimbo, la maggior parte, invece, alle conseguenze che la malaugurata distrazione avrebbe avuto sulle loro carriere, perfettamente consci della gravità del momento.

Un colpo secco fece accapponare la pelle ai difensori della Patria, armati fino ai denti, che si girarono verso la fonte, presi alle spalle. Una donna aveva spalancato la finestra, gridando: “U figgeu!”  “Dentro, Signora!” ordinò con rabbia un militare, spianando inutilmente il mitra d’ordinanza.
La scarpa non arrivò al bersaglio. Fu lambita a mezz’aria da un lampo azzurro verdastro, scomparendo alla vista. Ci fu un moto di meraviglia e di impotenza della piazza. Una fetta del gigantesco popone sembrò illuminarsi di una luce intensa, spaccandosi come per un assaggio, mentre il “piccin” si dileguava nei carrugi laterali da cui si era materializzato poco prima. 

Furono attimi di esitazione e di ansia, prima che  il "globo" sputasse il semino che giacque rivoltato su un lato, i lacci abbandonati sull’asfalto. Il “Pallone” si ricompose con un sussulto. Gli occhi, sgomenti, erano fissi su di lui. Gli uomini imbracciavano i loro fuciletti, nascondendosi dove meglio potevano, pronti a difendersi. Il veicolo extraterrestre cominciò a vibrare, accelerando il moto rotatorio in progressione. Ruotò sempre più veloce, prima di sollevarsi in una vertiginosa, ascesa verticale. Senza scie, senza rumori, in brevissimo tempo scomparve alla vista del verminaio di curiosi che, man mano che si allontanava, lentamente e sempre più numeroso, usciva da sotto il sasso per rifiatare, libero dallo scampato pericolo. L’enorme palla com'era arrivato così si allontanava, come uno yo-yo richiamato dal filo invisibile a cui doveva essere legato.

Le forze militari corazzate e para militari che avevano circondato la “off zona”, sfogarono la loro rabbia precipitandosi all’interno. In un battibaleno, con perfetta coordinazione, occuparono piazza de Ferrari “liberata” , intasando l’intera città. Intanto le interrogazioni parlamentari piovevano, finalmente, sulle Camere romane, fino ad allora in prudente attesa dell'evolversi della situazione. Palazzo Chigi si affrettava a tranquillizzare la nazione. L’invasore era stato scacciato e la situazione era sotto controllo. La scarpina, recuperata, sarebbe stata consegnata al legittimo proprietario, dopo gli accurati esami scientifici non appena fosse stato identificato. 
Peccato che i bimbi crescano in fretta!

lunedì 20 luglio 2015

MARTINA - favola breve.


Le foglie cominciavano a cadere dagli alberi e rinsecchivano per terra.
L’uno di fronte all’altra davanti alla casa stavano seduti su due massi intorno al fuoco; il vecchio inalava il fumo dalla pipa e la bimba, in silenzio, ammirava le spirali di fumo azzurrognolo che salivano dense nell’aria illuminata dal riverbero della fiamma che bruciava il ciocco. 
Era una canna lunga almeno mezzo metro dal bocchino ricurvo, che l’uomo aveva estratto con calma da qualche parte nelle profondità del tabarro nero buttato sulle spalle che l’avvolgeva, il cappello scuro a larga falda ben calcato in testa per combattere l’umidità della sera. Reggeva il cannello dal centro con due dita, come fosse un oggetto molto delicato, prezioso. La fiamma dello stecco, spezzato da un ramo secco raccolto da terra, gli serviva per accendere la pipa. Poggiava sul fornelletto, mentre lui aspirava ritmicamente, gonfiando e sgonfiando le guance. Boccheggiava come un pesce per diffondere meglio la fiamma sul tabacco, in modo che bruciasse uniformemente. Poi rilasciava nell’aria sbuffi bianchi, uno di seguito all’altro.
Di tanto in tanto staccava dalle labbra il dente del sottile bocchino e controllava la combustione, utilizzando il pigino delicatamente, con estrema perizia, per ricompattare il trinciato. Il filo di fumo si alzava regolare dal focolaio di radica. Incantata, la  nipotina lo guardava nell’oscurità che avanzava, mentre l’alternanza ondivaga delle ombre, allungandosi e accorciandosi a seconda dell’altezza della fiamma crepitante ai suoi piedi, contribuiva a rendere misteriosa la sera. Quel riflesso rossastro segnava il volto del nonno, marcato dalle rughe, ridisegnandone le occhiaie. Martina avvertì un brivido di freddo, mentre, circospetta, si guardava intorno, sforzandosi di scoprire il mondo che si nascondeva inquieto intorno a lei.

“Vieni qui!” l’esortò il vecchio. La piccola si compiacque dell’invito e subito si strinse accanto al nonno che le ricoprì le spalle con un lembo del mantello. “Non devi avere paura del buio.” proseguì con bonomia . “Vedi ora qui tutto è sicuro. Una volta, però, queste terre erano abitate da esseri strani che preferivano non manifestarsi agli uomini. Uscivano solo di notte, quando nessuno li poteva vedere. Non che fossero cattivi, che io sappia. È che s’intimidivano facilmente e allora perdevano il controllo di sé stessi e potevano innervosirsi. Se venivano lasciati in pace, invece, diventavano tanto buoni da fare trovare dei regali strabilianti ai bimbi di chi consentiva loro di vivere come gradivano. Nessuno li aveva mai visti, perché allora gli abitanti del luogo andavano presto a letto per potersi alzare all’alba al mattino, pronti per il lavoro nei campi e non avevano tanti grilli per la testa. Tutto procedeva bene fino a quando ai contadini del circondario non incominciò a sparire qualcosa: le galline da un angolo della stalla di Bartolo, i conigli dalla conigliera di Modesto e le uova dalla stia del pollaio di Carmela.

Si sarebbe potuto pensare all’opera di un vagabondo ma non c’erano orme di scarpe nei dintorni, né tracce di volpi o di furetti o di un niente che fosse. Allora, incolparono i folletti che operavano nell’oscurità della notte, che di carattere, si sa, sono dispettosi. E tesero loro una trappola. Nottetempo, Bartolo si appostò nei pressi della stalla; Modesto fuori della conigliera e Carmela vicino alla stia. Quella notte, stranamente, trascorse tranquilla e non si vide, né sentì nessuno. L’assedio fu tolto, ma la notte successiva fu un vero disastro. Diversi conigli, galline e le loro uova sparirono, causando l’irritazione furibonda dei proprietari. Non potevano certo continuare a non dormire di notte per far la guardia e compromettere così la cura dei campi che li impegnava ogni giorno severamente. Perciò si rivolsero a un cacciatore, pregandolo di vigilare per conto loro dietro adeguato compenso. Il cacciatore accettò e quella notte era ben sveglio e pronto a prendere il ladro con le mani nel sacco…”.

Il nonno continuava il racconto e la piccola sentiva gli occhi pesanti, mentre seguiva le contorte volute di fumo che s’innalzavano dalla pipa sparendo nella notte. A quel punto fu attratta dal luccicare di miriadi di puntini, piccoli come la capocchia degli spilli nel cielo nero come era nero il velluto dei pantaloni del nonno. Scintillavano e sembravano diminuire e aumentare d’intensità, quasi le facessero l’occhiolino. Guardò meglio e s’accorse che, lungo i raggi di quelle luci così lontane, scendeva verso di lei una fila di omini, piccini piccini. Si meravigliò e acuì l’attenzione, fissando lo sguardo sui piccoli esseri.
Erano folletti vestiti di verde, con cappelli  a punta a forma di cono. Le accarezzarono la mano, invitandola a seguirli. Alcuni la sollevarono delicatamente dalle ascelle, altri dalle caviglie, mentre i primi della fila le reggevano le mani, rassicurandola. Così, con le braccia spalancate s’alzò in volo. Provò l’ebbrezza di un tuffo nella notte. Guardò in basso e vide il nonno rimpicciolire sempre di più, avvolto in una nuvola di fumo. Mentre lei saliva, il nonno continuava a raccontare la sua storia, senza accorgersi di nulla e ora sembrava proprio una statuina del presepe. I folletti, intanto, si scambiavano informazioni, ridendo, di tanto in tanto, fra di loro con voce stridula. Poceka, poceka, poceka, poceka: che strana lingua!

Evidentemente la bimba era entrata nelle loro simpatie come loro riuscivano simpatici alla bimba. “Poceka poceka poceka” dissero i folletti, indicando un fuoco acceso in una radura vicina. Ma ecco che all’improvviso, con sua grande meraviglia, la bimba cominciò a intendere il loro linguaggio. “Guarda lì e saprai chi ruba animali e uova ai contadini!” dicevano, indicando qualcosa. La bimba ne aveva afferrato il senso, comprendendo per la prima volta il loro strano linguaggio fatto di suoni velocizzati al massimo. Erano agitati e segnalavano, con l’indice della manina teso, un’ombra scura che s’agitava intorno alla fiamma.
“È la strega!” - strillarono i folletti - “Guarda, guarda, ora si trasforma!” I “poceka” si moltiplicarono, sgorgando a fontanelle. Lei ascoltava incuriosita le loro espressioni di contrarietà. Gli occhioni della bimba erano spalancati di meraviglia, quando dall’alto si avvide di quello che stava combinando la strega. S’accorse che ai suoi piedi c’era un serpentello e che la strega, dopo aver bevuto un intruglio, lentamente stava cambiando le sembianze. Prima le gambe, poi il corpo ed infine la testa entrarono nella pelle distesa del serpente. Man mano che lei entrava, il serpente diventava sempre più grande, fino a diventare enorme. In testa spuntarono due cornetti e lo sguardo diventò nero e cattivo. Continuò ad allungarsi fino a  raggiungere la lunghezza e la forza di un bue. Quindi, la grossa serpe strisciò verso il pollaio vicino. Era così silenziosa che nessuno l’avrebbe mai potuta sentire. Inoltre, si apriva la strada fra l’erba senza calpestarla, in quanto non aveva piedi, ma solo incuneandosi tra foglia e foglia, tra stelo e stelo e srotolandosi come una grossa matassa viscida.

“Incredibile, inaudito, incolpare noi dei furti subiti dai contadini! Noi che non c’entriamo nulla e che ci diamo da fare a rendere fertile la terra che lavorano, a regolare gli argini dei fiumi, a pulire la foresta dai rami e foglie secche. Invece ci accusano di scompigliare i capelli alle donne, di fare dispetti agli animali, di mettere in disordine i loro attrezzi, di correre tutta la notte.” - protestavano i folletti che, tuttavia, non erano del tutto estranei a quelle bravate, solo per divertirsi, naturalmente; qualche monelleria l’avevano sulla coscienza -  “E questa è la ricompensa? La strega si trasforma in un serpente con i cornetti da  cervo - e imitavano i cornetti della strega/serpente - e va a svaligiare arnie e stie, e noi ne dovremmo subire le conseguenze?!” s’infervoravano i piccoli abitanti della foresta, ridacchiando amaramente fra di loro, perché i folletti non possono far a meno di ridere neanche quando sono arrabbiati. “Andiamo ad annientare il piano della strega cattiva!” “Si,si,si,si, andiamo, andiamo!” gridarono in coro, ridacchiando, agitandosi, rivoltandosi in aria e saltandosi l’un l’altro, giocando al salto della cavallina.

Scesero veloci verso il serpente che era diretto al pollaio di Carmela. In breve atterrarono, e  con loro la bimba. Il serpente era enorme, mentre i folletti erano minuscoli. Ma, si sa, i folletti sono testardi e furbi. Iniziarono a correre intorno a quell’elefante di serpente che cercava di spostarsi rapidamente, come sa fare un serpente, dimenando il capo a destra e sinistra prima di scattare, cercando di mangiare le fastidiose mosche/folletto che lo frastornavano. Ma i folletti erano più rapidi di lui e facevano una baraonda infernale, confondendolo sempre di più. Vistosi a mal partito, virò verso la stalla di Bartolo dove le galline dormivano nell’angolo dietro la mangiatoia delle vacche. Ma i folletti cominciarono a provocare le vacche nei loro stalli che, temendo che qualcuno volesse rubare loro il latte, attaccandosi alle mammelle, pestarono e scalciarono come forsennate. Il serpente malvagio non riusciva a passare, rischiando di essere più volte ridotto a fricassea, bello e spacciato, e batté in ritirata per non essere travolto. Verde dalla rabbia si girò, dirigendo la sua attenzione alla conigliera di Modesto. Cercava di nascondersi fra l’erba alta per non farsi scoprire, ma i folletti lo seguirono. Ivi giunto si preparò a fare una scorpacciata di conigli, spalancando le fauci che erano spaventosamente grandi. Ma gli omini verdi, che ne sapevano una più del diavolo, con la rapidità del fulmine gli piantarono un ramo appuntito fra le fauci in modo da impedirgli di richiuderle. Il serpente sfiatava come un leone e si contorceva nel tentativo di liberarsi da quella incomoda posizione. La lingua biforcuta vibrava in tutte le direzioni, tentando di attorcigliarsi al bastone per strapparselo via. Ma non riusciva, né la strega ch’era in lui poteva fare nulla per ritornare nella sua forma originaria e liberare il povero animale di cui si era impossessata, perché la pozione era rimasta nella radura, accanto al fuoco. I folletti, intanto, ballavano tenendosi per mano ed improvvisando un confuso girotondo, fra risa di scherno per il serpente/strega, stridii, grida e poceka poceka poceka di gioia, urlati a più non posso.

Il serpente batté in ritirata, allontanandosi più velocemente possibile da quei luoghi infausti. Riguadagnò la foresta in cerca di pace per pensare a superare le sue difficoltà. Mentre la strega moriva dalla rabbia per non aver mangiato nulla in quella notte terribile. La bimba sentiva i folletti che ridevano ancora e ancora e ancora mentre lei batteva le manine, contenta, ma sembravano allontanarsi, come se fossero in un'altra dimensione, come se uscissero dalla porta. Percepì, allora, un’altra voce, anch’essa lontana, ma sempre più vicina; continuava a raccontare una storia che doveva essere bella. A lei piacevano tanto le favole, ma preferiva quelle che finivano bene, dove c’erano persone che alla fine vivevano felici e contenti per mille, mille e mille anni ancora. La voce si avvicinava e la cullava.  La faceva sognare. Era rassicurante il suo tono, come rassicurante era il tepore che avvertiva. Quella voce…la conosceva!
Era del nonno che continuò: “Da quel giorno il serpente cervone, così chiamato per i cornetti che aveva sul capo, fu detto anche pasturavacca, perché si accontentava di bere il latte, attaccandosi alle mammelle delle mucche, ma di giorno soltanto. Aveva imparato la lezione e non si avventurò mai più al buio, di notte, per non cadere nelle grinfie di qualche strega che lo costringesse a subire la sorte del suo antenato; ora caccia solo di giorno, quando può rendersi ben conto con chi ha a che fare.”.

Il nonno taceva. Lei aprì  a forza un occhio e capì che poggiava in grembo a lui. Le braccine pendevano lungo le sue gambe. Le sembrò di guardare in alto, girando leggermente la testa, per riconoscere la sagoma ben nota. Fumava tranquillamente, boccata dietro boccata, accarezzandola, perduto nel silenzio della notte. Richiuse gli occhi, mentre il nonno la sollevava per portarla in casa. Sognava di volare.
Il nonno le rimboccò le coperte. Lei si girò dall’altra parte, verso la finestra da cui un raggio della luna appena sorta filtrava, mentre il nonno sussurrava: "Buonanotte, Martina.”

Un attimo dopo dormiva profondamente.